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NewsLetter

diario Simone Luchessa

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CO Simone Luchessa 
Simone Luchessa
 
 
41 anni

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Ricevuta
29/03/2020
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

       ... e il "dopo"?

 
Per l’ ”oggi” le paure sono quelle di tutti.
Ci sono quelle private, con il pensiero che va ai genitori anziani e già “acciaccati” che per fortuna al momento stanno bene là nel paesino in montagna, ai nipoti e agli altri familiari, agli amici – vicini e sparsi in giro per il mondo - e ai loro bimbi (penso tanto ai bimbi dei miei amici in questo periodo).
La paura vera alla fine è che all’improvviso ti arrivi la notizia che all’interno degli spaventosi numeri dei deceduti o dei ricoverati in terapia intensiva appaia il nome di una persona che conosci, che ti è vicina, a cui vuoi bene o a cui vuol bene una persona a te cara e vedi questa soffrire.
E quando succede – e credo stia succedendo alla maggioranza delle persone, almeno qua in Lombardia - tutto si amplifica e ti senti anche in colpa, perché è come se prima di leggere o conoscere quel nome, in fondo, non ti sentissi coinvolto.
Su questo aspetto non c’è nulla da fare, ci pensi e lo fai spesso, ma devi imparare a conviverci, sapendo che ti accompagnerà fino al momento in cui ne saremo fuori.
Poi ci sono le paure più generali sempre riferite all’ “oggi”: che il propagarsi del virus non rallenti a breve, che nuove morti si sommino alle migliaia già avvenute, che altre famiglie non riescano nemmeno a stringersi al proprio caro che li sta lasciando (che strazio affrontare il dolore senza nemmeno potersi far abbracciare), che le persone che lottano contro il virus – medici, infermieri, volontari ma anche chi è costretto a lavorare per garantire beni e servizi essenziali – rischino a loro volta la loro salute e quella dei loro cari.
Queste paure, almeno per ora, non mi travolgono.
Sia per carattere, sia perché per fortuna riesco a lavorare da casa e quindi dal lunedì al venerdì le giornate passano veloci e riempio gli altri momenti leggendo, facendo ginnastica, sentendo amici, un po’ perché mi sono imposto di non ascoltare in continuazione notizie, aggiornamenti, previsioni, ma di farlo solo mattina e sera e selezionando – per quanto possibile - le fonti.
Soprattutto, le tengo a bada perché so che ci posso fare poco – e quel poco lo faccio – e poi quanto sta succedendo è tragico e pesantissimo ma lo “vedo”.
Ciò che invece non “vedo” è il “dopo”.
Non lo “vedo” e quindi sono costretto a prevederlo e non mi piace, non mi piace proprio.
Tendo a non pensarci infatti, ma credo sia sbagliato e quindi mi autoimpongo di rifletterci.
Questo “dopo” mi inquieta non solo per le conseguenze economiche, che saranno durissime per tanti, ma anche perché temo che alcuni comportamenti che sono entrati – per motivi legislativi o no, poco importa – nella nostra quotidianità ci rimarranno, magari in modo “subdolo”, anche quando l’emergenza sarà passata.
Parlo della paura dell’”altro”, che per forza è pericoloso, infetto, quindi nemico.
Ieri al supermercato un vecchietto è stato trattato male da diverse persone perché si avvicinava a chiedere informazioni, non riusciva a leggere l’etichetta di un prodotto.
Due sere fa un tizio dal balcone ha preso a male parole una coppia che passava sotto casa senza mascherina e che, a suo dire, si erano persino fermate a chiacchierare. La donna ha risposto che rientravano dall’ospedale – non so se è vero, ma il tizio comunque ha continuato nel suo sproloquio.
Sono due esempi piccoli, mi auguro non significativi, non lo so, ma a me – davvero – inquietano.
Perchè temo che ancora una volta si finirà con il prendersela con i poveracci, con i “diversi” e i fuori dal coro.
Saranno gli stranieri, i poveri, i vecchi, non lo so, forse tutti questi che ho elencato.
Ci sarà qualcuno che alimenterà questa voglia di trovare i capri espiatori perché è sempre comodo trovare un “altro” con cui prendersela se si devono nascondere responsabilità o incapacità, sia nell’emergenza che nel dopo.
Se poi ci aggiungiamo che già si sente parlare di “orgoglio nazionale” e di esaltazione degli “eroi che combattono il virus”, il mix può essere letale. 
CO Simone Luchessa questionPerché autoesaltare un modello Italia rischia – di nuovo – di portare ad una totale mancanza di analisi e critica di cosa sta succedendo, soprattutto nella Lombardia che si vantava del suo modello sanitario, mentre la cosa peggiore che si può fare per medici e infermieri che in queste settimane lottano ogni minuto è considerarli come “eroi”, “angeli”, “santi”, figure che esistono solo se ci credi, tutte figure create ad arte per – ancora – togliere la responsabilità in questo caso a tutti, perché non si può mica pretendere che ognuno di noi sia eroe o angelo, quelli ci sono, che bello che ci sono stati, poi i medici e gli infermieri si potranno tornare ad insultare nei pronto soccorso ( a naso, mi permetto, molti di quelli che adesso li chiamano eroi sono proprio quelli che prima li trattavano con sufficienza o peggio o magari pensavano che “in fondo basta google”).
Che bello invece se iniziassimo a pensare a loro come meravigliose persone e straordinari professionisti che stanno dando il 200%, a volte (o sempre?) senza una organizzazione e degli strumenti adeguati e che il regalo più grande sarebbe proprio garantirglieli per il futuro, senza le medaglie da eroi, che non sapranno cosa farsene.
 
 
 
 
 
Ultimo aggiornamento ( Martedì 31 Marzo 2020 14:55 )  
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